Possiamo “portare” Dio in terapia? (1° parte)

Alcune considerazioni sulla possibilità di poter affrontare in terapia il rapporto con Dio, in una prospettiva cristiana.

di Emiliano Tognetti

Che si possa affrontare anche la dimensione spirituale della persona in una terapia psicologica, ormai è un dato assodato; basta far riferimento, da un punto di vista scientifico agli studi del neuroscienziato Andrew Newberg[1] che, nel 1992, provò a capire gli effetti di varie forme di preghiera e meditazione sull’essere umano.

Anche altri illustri scienziati come Herbert Benson, cardiologo della Harvard Medical School “che ha studiato a fondo il ruolo che il sistema nervoso autonomo gioca nel processo della malattia umana” (Aleteia, 08/09/2020[2]).

Quello che vorrei presentare è una cornice teorica, una riflessione sulla possibilità di parlare del rapporto di un paziente con Dio, se questo per lui è un tema significativo ed importante che porta in terapia, trattando in un certo senso Dio, “come se fosse una persona” questo che forse ad alcuni può sembrare “strano o disdicevole” a me è apparso invece coerente, se inserito in una prospettiva cristiana. Questa è una premessa necessaria da considerare in tutto il ragionamento di base che ho fatto.

Come punto di partenza teorico, ho ritenuto necessario un confronto fra la Sacra Scrittura, Magistero e uno dei modelli descrittivi più versatili nel panorama contemporaneo: il SASB (Structural Analysis of Social Behavior)[3] di Lorna Smith Benjamin (1974), introdotto in Italia da Pio Scilligo alla Pontificia Università Salesiana.

Come lei afferma a pag. 63 della versione italiana del suo libro “Terapia Ricostruttiva Interpersonale” (ed. Raffaello Cortina, 2018), “L’Analisi strutturale del comportamento sociale (SASB) è un modello ben convalidato che permette di descrivere le interazioni interpersonali ed intrapsichiche con un linguaggio utile sia per la prassi clinica sia per la ricerca”.

Sono partito dal presupposto che il suo è un modello DESCRITTIVO e NON INTERPRETATIVO della dinamica interpersonale e quindi vuol capire la dinamica e non fornire una chiave di lettura preventiva della realtà, come può essere nel caso l’approccio dinamico o costruttivista. “Descrittivo”, non vuol dire “neutro”, ma si riferisce ad un modello che, per quanto possibile, cerca di costruire con il paziente un significato all’interno della relazione terapeutica, partendo dal sistema paziente, adattandosi alla relazione e non adattando la relazione a degli schemi precostituiti tipici di alcuni approcci psicoterapeutici.

In sostanza, si cerca di evitare per quanto possibile di correre quel rischio di cui parla il filosofo Karl Popper (1984) a proposito del fatto che alcune teorie come quella psicanalitica avevano, riferendosi al “loro apparente potere esplicativo. Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano.” [4]

Il modello SASB prevede tre superfici Io e Altro e il Sé, con i quadranti operativamente divisi fra “versante positivo”, quello a destra verso la punta “amore” ed il “versante negativo” verso la punta “odio”.

Considerando il fatto che “l’Io” rappresenta sostanzialmente il paziente, quindi la persona che noi abbiamo in terapia, la superficie che è interessante analizzare è la superficie “Altro”, in quanto è l’altro con cui mi relaziono.

Nell’antropologia Cristiana, Dio è una persona. Questo è confermato in maniera esauriente dal Catechismo della Chiesa Cattolica, in particolare dai numeri 470-476[5]. Dio si è incarnato in Gesù, in un tempo ed in una storia ed ha interagito con le persone del suo tempo storico. Poi, grazie alla narrazione dei Vangeli, ai sacramenti ed alla tradizione della Chiesa, Lui in una prospettiva di fede è rimasto nel “qui ed ora”, come afferma in Matteo “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Questa concezione di Gesù come persona con cui possiamo avere un rapporto quotidiano, è ripresa anche dall’Enciclica di Papa Francesco “Evangelii Gaudium” al punto 7[6].

Anche questo è un punto fondamentale, perché nella premessa del modello l’Altro deve essere reale, presente e reale ed in una prospettiva cristiana, questo è vero per la persona di Gesù Cristo, che da Risorto è “eterno”, cioè sempre presente e reale in ogni tempo e può essere considerato in tal senso, un interlocutore, con cui possiamo agire e di cui possiamo farci o ricevere un’idea.

Proseguendo in questo ragionamento teorico, come succede in ogni relazione interpersonale, ognuno di noi rispetto all’altro si crea un’idea, buona o cattiva e con questa agiamo verso il nostro interlocutore che potrà confermarla o smentirla.

Analogamente, noi riceviamo in famiglia, in parrocchia o nelle varie realtà ecclesiali, “un’idea di Dio” che potrà essere buona o cattiva e con la quale noi ci relazioniamo con Lui in una vita di fede.

[1] Si rimanda alla letteratura del dottor Andrew Newberg, disponibile all’U.R.L.
andrewnewberg.squarespace.com

[2] https://it.aleteia.org/2020/09/08/cosa-accade-al-cervello-quando-preghiamo/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it.

3 Si rimanda alla letteratura della dottoressa Lorna Smith Benjamin, disponibile all’U.R.L. lornasmithbenjamin.com

[4] POPPER K.R., Postscritto alla Logica della scoperta scientifica, Saggiatore, Milano, 1984, Vol. I: Il realismo e lo scopo della scienza.

5 È possibile consultarli all’U.R.L. http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p122a3p1_it.htm

[6] http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.html#I.%E2%80%82Gioia_che_si_rinnova_e_si_comunica

Be the first to comment on "Possiamo “portare” Dio in terapia? (1° parte)"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*